venerdì 30 aprile 2010

IL SANTO ROSARIO - parte seconda

«Infatti, da quando tale forma di preghiera insegnata da San Domenico fu abbracciata e debitamente praticata dal popolo cristiano, cominciarono a rinvigorire la pietà, la fede e la
concordia, e furono dappertutto infrante le manovre e le insidie degli eretici.
Inoltre moltissimi erranti furono ricondotti sulla via della salvezza, e la follia degli empi fu schiacciata da quelle armi che i cattolici avevano impugnate per rintuzzare la violenza.
Infine, Gregorio XIII dichiarò che il "Rosario fu istituito da San Domenico per placare l'ira di Dio e per ottenere l'intercessione della Beata Vergine".
Il bisogno dunque del divino aiuto non è certamente minore oggi di quando il glorioso San Domenico introdusse la pratica del Rosario Mariano per guarire le piaghe della società.
Egli, illuminato dall'alto, vide chiaramente che contro i mali del suo tempo non esisteva rimedio più efficace che ricondurre gli uomini a Cristo, che è “via, verità e vita”, mediante la frequente meditazione della Redenzione, ed interporre presso Dio l'intercessione di quella Vergine a cui fu concesso di“annientare tutte le eresie”.

Papa Leone XIII - Supremi Apostolatus - 1 Settembre 1883
Tratto dal sito dei Domenicani del Rosario

mercoledì 28 aprile 2010

IL SANTO ROSARIO - parte prima

«Per superare più facilmente difficoltà di guerre e altre calamità sia corporali che spirituali, e potere così nella pace servire Dio con maggiore serenità e fervore, i Pontefici Romani e altri Santi Padri che ci hanno preceduto ebbero sempre la consuetudine di implorare l'aiuto di Dio e di assicurarsi l'intercessione dei Santi attraverso suppliche e preghiere litaniche, elevando, come Davide, gli occhi al cielo con la sicura speranza di riceverne gli aiuti promessi.

Su l'esempio di costoro e, come piamente si crede, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, in tempi simili ai nostri, il Beato Domenico, fondatore dell'Ordine dei Frati Predicatori, al quale abbiamo anche Noi appartenuto e del quale abbiamo professato la Regola, similmente operò. L'eresia albigese infatti, imperversava allora in gran parte della Francia e dell'Italia e aveva accecato talmente i laici, che questi si scagliavano furiosamente contro i sacerdoti di Dio e i chierici.

Il Beato Domenico, elevando gli occhi al cielo, li volse a quel dolce monte che è la gloriosa Vergine Maria, Madre di Dio, a colei che sola, col frutto del suo ventre, schiacciò il capo dello ambiguo serpente e distrusse tutte le eresie e salvò il mondo dannato per colpa dei nostri primi parenti...

Il B. Domenico inventò allora quel modo assai facile e pio e accessibile a tutti di pregare Dio, chiamato Rosario o Salterio della Beata Vergine Maria, che consiste nel venerare questa Beata Vergine ripetendo centocinquanta volte la salutazione angelica, secondo il numero dei salmi di Davide, interponendo ad ogni decina il Padre nostro e alcune determinate meditazioni, che illustrano tutta la vita del Signore Nostro Gesù Cristo.

Avendolo dunque inventato, il B. Domenico propagò ovunque nella Santa Chiesa cattolica questo modo di pregare e attraverso i suoi figli, i frati dell' Ordine, lo divulgò; esso fu accolto da molti e i fedeli che accolsero quella preghiera con fervore, accesi da quelle meditazioni, furono trasformati in altri uomini; le tenebre delle eresie indietreggiarono e la luce della fede cattolica si fece strada nuovamente.
I frati dell'Ordine, col mandato dei loro legittimi superiori, un po' dovunque istituirono le Associazioni del Rosario, alle quali molti fedeli si iscrissero.

Sulle orme dunque dei nostri Predecessori, anche Noi, vedendo questa Chiesa militante, che Dio ci ha affidato, agitata al presente da tante eresie e atrocemente dilacerata e afflitta dalla guerra e dalla depravazione morale degli uomini, eleviamo gli occhi pieni di lacrime, ma anche di speranza verso quella vetta benedetta (Maria), dalla quale discende ogni soccorso, e invitiamo tutti e singoli i fedeli, ammonendoli benevolmente nel Signore, a fare altrettanto».

S. Pio V - Consueverunt Romani Pontifices - 17 Settembre 1569
Enciclica del Papa tratta dal sito del Movimento Domenicano del Rosario

mercoledì 21 aprile 2010

La grazia della penitenza

Cari amici,
in quest'anno sacerdotale, provvidenzialmente dedicato alla santificazione dei sacerdoti, dobbiamo sentire il bisogno di unirci a tutta la Chiesa nella preghiera per questa intenzione. Abbiamo bisogno di santi sacerdoti e di una nuova fioritura di vocazioni sacerdotali.
In questi giorni, in cui tanti fatti dolorosi sono venuti alla luce, il Santo Padre ci invita, con accenti accorati, alla penitenza e alla conversione:
" Noi oggi abbiamo spesso un po' paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma che la sua meta sia la vita eterna non osiamo dirlo".
In tale prospettiva "La penitenza è una grazia. Devo dire che noi cristiani abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci è apparsa troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita. Aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, della purificazione e della trasformazione, questo dolore è grazia, perchè é rinnovamento, è opera della divina misericordia". (Omelia del Papa di Giovedi 15 Aprile 2010)


Tratto dalla lettera di padre Livio

venerdì 16 aprile 2010

L' essenziale

Potete così comprendere la preoccupazione del Successore di Pietro per tutto ciò che può offuscare il punto più originale della fede cattolica: oggi Gesù Cristo continua a essere vivo e realmente presente nell'ostia e nel calice consacrati.

La minore attenzione che a volte si presta al culto del Santissimo Sacramento è indice e causa dell'oscuramento del significato cristiano del mistero, come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore.

Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio - secondo "la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati" (Sacrosanctum Concilium, n. 2).

Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice.

Quanto sono distanti da tutto ciò coloro che, a nome dell'inculturazione, incorrono nel sincretismo introducendo nella celebrazione della Santa Messa riti presi da altre religioni o particolarismi culturali (cfr Redemptionis Sacramentum, n. 79)! Il mistero eucaristico è un "dono troppo grande - scriveva il mio venerabile predecessore Papa Giovani Paolo II - per sopportare ambiguità e diminuzioni", in particolare quando, "spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno" (Ecclesia de Eucharistia, n. 10).
Alla base delle varie motivazioni addotte, vi è una mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo in soccorso dell'uomo. Questi, tuttavia, "si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si senta come incatenato" (Costituzione Gaudium et spes, n. 13).
La confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità.

Il culto però non può nascere dalla nostra fantasia; sarebbe un grido nell'oscurità o una semplice autoaffermazione. La vera liturgia presuppone che Dio risponda e ci mostri come possiamo adorarlo.
"La Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell'Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della Croce" (Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, n. 14). La Chiesa vive di questa presenza e ha come ragion d'essere e di esistere quella di diffondere tale presenza nel mondo intero.

Brano tratto dal discorso del Papa
Benedetto XVI ai vescovi brasiliani
15 Aprile 2010

lunedì 12 aprile 2010

Come lo svegliarsi da un sogno

«Quid prodest homini, si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur?» (Mt 16,26). O massima grande, che ha inviato tante anime in Cielo, e ha dato tanti Santi alla Chiesa! A che cosa serve guadagnarsi tutto il mondo che finisce e poi perdere l’anima che è eterna?
Mondo! E che cosa è questo mondo, se non un’apparenza, una scena di commedia, che presto passa? «Præterit figura huius mundi» (1Cor 7,31).
Viene la morte, si cala il panno, si chiude la scena, ed ecco è finita ogni cosa. Ahimé in punto di morte, al lume di quella candela, come compariranno ad un cristiano le cose del mondo? Quei vasi d’argento, quel denaro accumulato, quei mobili ricchi e vani, quando tutto deve lasciare?

Gesù mio, fate che l’anima mia da oggi in poi sia tutta vostra: fate che io non ami altri che voi. Voglio staccarmi da tutto, prima che me ne stacchi a forza la morte. Dice santa Teresa: «Non si deve tener conto di ciò che finisce». Procuriamoci dunque quella fortuna che non finisce col tempo.

A che cosa serve l’esser felice per pochi giorni (se mai potesse dirsi vera felicità, senza Dio), a chi poi dovesse essere infelice per sempre? Dice Davide che tutti i beni terreni in morte sembreranno come un sogno di chi si sveglia: «Velut somnium surgentium» (Sal 72,20). Che pena sente chi ha sognato d’esser fatto re e poi svegliandosi si ritrova povero qual era?

Mio Dio, chi sa se questa meditazione che leggo, è l’ultima chiamata per me? Datemi forza di togliere dal mio cuore tutti gli affetti di terra, prima che da questa terra io parta. E fatemi conoscere il gran torto che vi ho fatto nell’offendervi e nel lasciar voi per amor delle creature. «Pater non sum dignus vocari filius tuus» (Lc 15,21). Mi pento d’avervi voltato le spalle, non mi cacciate via ora che ritorno a voi.In punto di morte non consolano un cristiano gli offici decorosi esercitati, non le pompe, non le ricchezze, non i divertimenti presi, non i puntigli superati; lo consoleranno solo l’amore portato a Gesù Cristo e quel poco che ha patito per suo amore.

Filippo II morì dicendo: «Oh! Fossi stato laico d’una religione, e non già re!». Filippo III morendo diceva: «Oh! Fossi vissuto in un deserto, perché ora comparirei con più confidenza al tribunale di Dio!». Così parlano in morte quelli che sono stimati i più fortunati della terra. Insomma tutti gli acquisti delle cose terrene nell’ora della morte terminano con rimorsi di coscienza e terrori della dannazione eterna. “Oh Dio – dirà quella persona –, io ho avuto tanta luce per distaccarmi dal mondo, ma con tutto ciò ho seguito il mondo e le massime del mondo: ed ora quale sarà la sentenza che mi sarà data!”. Dirà: “Oh pazzo che sono stato! Potevo farmi santo con tanti mezzi e comodità che ho avuto! Potevo fare una vita felice unita con Dio: ed ora cosa mi trovo della vita fatta?”. Ma ciò quando lo dirà? Quando sta già per chiudersi la scena, per entrar nell’eternità, vicino a quel gran momento, da cui dipende l’esser beato o disperato per sempre.

Signore, abbiate pietà di me. Per il passato non vi ho saputo amare. Da oggi in poi voi sarete l’unico mio bene: «Deus meus et omnia!». Voi solo meritate tutto il mio amore, voi solo voglio amare. Oh, grandi del mondo, ora che state nell’inferno, cosa vi trovate delle ricchezze e dei vostri onori? Rispondono piangendo: “Niente, niente; altro non troviamo che tormenti e disperazione. Tutto è passato, ma la nostra pena non finirà mai”. [...]. In punto di morte è il tempo della verità: allora si riconoscono le cose di questa terra tutte per vanità, fumo, cenere, quali sono. O mio Dio, quante volte vi ho abbandonato per niente! Non avrei ardire di sperar perdono, se non sapessi che voi siete morto per perdonarmi. Ora vi amo sopra ogni cosa e stimo la vostra grazia più di tutti i regni del mondo.La morte si chiama ladro: «Dies illa tanquam fur» (1Ts 5,4). Perché ella ci spoglia di tutto: di cose, di bellezza, di dignità, di parenti, anche della nostra pelle. Il giorno della morte si chiama ancora il giorno delle perdite: «Dies perditionis» (Dt 32,35). Allora abbiamo da perdere tutti gli acquisti fatti e tutte le speranze di questo mondo.

Gesù mio, non mi preoccupo di perdere i beni della terra; basta che non perda voi, bene infinito

Scritto da Sant' Alfonso M. de Liguori
Brano tratto dal Settimanale di P. Pio