venerdì 14 gennaio 2011

Il secondo Comandamento

Non nominare il nome di Dio invano

Il secondo Comandamento ci proibisce innanzitutto la bestemmia, le imprecazioni, il pronunciare il santo Nome di Dio, come pure quello di Gesù Cristo, della Beata Vergine e dei Santi, nella collera, per scherzo o in altro modo poco riverente (CCC, nn. 2146, 2148-2149).
La bestemmia «consiste nel proferire contro Dio (o contro la Madonna, i Santi e le cose sante) – interiormente o esteriormente – parole di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel mancare di rispetto verso di lui nei propositi, nell’abusare del Nome di Dio» (CCC, n. 2148).
Si può bestemmiare anche con i gesti; ad esempio levando un pugno verso l’alto in segno di ribellione e di sfida a Dio. È bestemmia anche attribuire a Dio qualcosa che ripugna alla sua Bontà, alla sua santità o alla sua perfezione; come il dirlo ingiusto, cattivo, parziale. È bestemmia negare le perfezioni che Egli ha, come la Sapienza, la Potenza, la Provvidenza. Non è raro purtroppo sentire anche anime, che si credono buone, le quali dicono che Dio non è giusto, che non provvede, che fa preferenze, che non doveva fare questa o quell’altra cosa.
La bestemmia è un peccato mortale, anzi, è il più grave di tutti, perché offende ed oltraggia Dio direttamente. Mentre gli altri peccati offendono la Legge di Dio, la bestemmia invece è un’ingiuria diretta contro di Lui. Questo peccato non ammette scuse: non basta dire che è la collera che fa bestemmiare. La stessa collera infatti è già peccato. D’altra parte perché prendersela col Signore? Neppure si può dire che ormai si è presa l’abitudine. Infatti potrebbe forse essere perdonato un ladro, che davanti al giudice dicesse di non essere colpevole, perché ormai ha acquistato l’abitudine di rubare?
I dolori e le disgrazie che ci possono capitare non scusano le nostre bestemmie davanti a Dio, perché Dio tutto permette per un nostro maggior bene ed è proprio in questi momenti che dobbiamo attaccarci di più al Signore.
La bestemmia, oltre ad essere un’offesa gravissima a Dio, è anche una grande viltà. Si bestemmia sapendo che Dio tace, non risponde, tollera. La stessa viltà dei servi che bendarono Gesù e lo schiaffeggiarono, gli sputarono in faccia, domandandogli di indovinare chi era stato (cf Mt 26,67-68).
Stupidità, ignoranza e perversione morale fanno pure dire: “Chi bestemmia, crede”. Questi incoscienti diranno poi davanti a Dio, al termine della loro vita: “Signore, ho manifestato la mia fede in te, bestemmiandoti continuamente!”. Chissà cosa risponderà loro il Signore! Costoro farebbero meglio a meditare seriamente la Parola di Dio che dice: «Non ti impigliare due volte nel peccato, perché neppure di uno resterai impunito!» (Sir 7,8). Ed ancora: «Il Signore non ha comandato a nessuno di essere malvagio, e non ha dato a nessuno il permesso di peccare» (Sir 15,20).La bestemmia è anche un grave scandalo! Il padre di famiglia trasmette purtroppo l’abitudine ai figli, l’operaio al collega, il giovane al proprio compagno, e la responsabilità pesa sulla coscienza. Il bestemmiatore è il collaboratore diretto del demonio. Satana non può scagliarsi direttamente contro Dio e spinge l’uomo a fare lui questa triste parte, riservandogli poi il premio di portarlo con sé nell’abisso eterno! Abbiamo il dovere di riparare l’offesa fatta a Dio, alla Madonna o ai Santi con una preghiera e una giaculatoria, detta anche solo col pensiero. Se abbiamo il coraggio e l’opportunità, facciamo sentire il nostro rimprovero calmo e garbato. Vi è differenza tra la bestemmia e l’imprecazione perché la bestemmia è rivolta contro Dio, mentre l’imprecazione è un’ingiuria che può essere diretta anche contro il prossimo o contro gli avvenimenti a cui ci si ribella (cf CCC, n. 2149). Il secondo Comandamento ci proibisce anche di pronunciare il Nome divino inutilmente, senza ragione e senza rispetto. Molti hanno il Nome di Dio sempre sulle labbra per ogni piccola cosa, per esprimere meraviglia o in moti d’impazienza e di collera. Chi così pronunzia il Nome di Dio non va esente da colpa, almeno veniale. Lo stesso si dica se inopportunamente si pronunziasse il Nome della Madonna, dei Santi e delle cose sante.
Il secondo Comandamento proibisce l’uso magico del Nome divino (e delle preghiere). È il caso di persone, anche in buona fede, che dicono di togliere il malocchio, mettendo in un piatto d’acqua delle gocce di olio o dei chicchi di grano. Pensano che ciò sia una cosa buona solo perché fanno dei segni di croce e dicono delle preghiere nel fare questo. Invece è peccato perché si profana il Nome di Dio o il santo Segno della croce infangandoli con queste pratiche magiche (CCC, n. 2149). Il secondo Comandamento proibisce i giuramenti falsi (chiamare Dio ad essere testimone di una menzogna), e anche i giuramenti illeciti (quelli con cui ci si impegna a compiere il male) (CCC, nn. 2150-2152). Astenersi dal falso giuramento è un dovere verso Dio. Come Creatore e Signore, Dio è la norma di ogni verità. Dio è la stessa Verità (CCC, n. 2151).
Non siamo obbligati ad adempiere i giuramenti iniqui, anzi commetteremmo un peccato nell’eseguire quelle azioni cattive a cui ci siamo colpevolmente impegnati in tale modo (chi giura di vendicarsi o di recare danno al prossimo). Si vorrebbe coinvolgere nientemeno Dio nel compiere un’azione cattiva!
Non è bene ricorrere spesso al giuramento, ma esso va riservato ai casi di vera necessità e per un motivo giusto, per esempio davanti ad un tribunale (CCC, nn. 2153-2155).
È in armonia con quanto insegna Gesù nel Discorso della Montagna: «Avete che inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5,33-34.37). Anche san Paolo lascia intendere che non è contrario al Volere divino ricorrere al giuramento quando è veramente necessario e secondo giustizia. Così scrive ai Corinzi: «Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita, che solo per risparmiarvi non sono più venuto a Corinto» (2Cor 1,23). E ai Galati: «In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco» (Gal 1,20).
Non si oppone al secondo Comandamento lo scongiuro, ossia il tentativo di indurre una persona a fare od omettere qualche cosa, interponendo il Nome di Dio. Il Nome di Dio è considerato tanto degno di venerazione che, uditolo, l’altro sia mosso a fare od omettere qualche cosa. Per la liceità si richiede che si prenda la cosa seriamente; che vi sia un motivo proporzionato, infine che si voglia ottenere qualche cosa di lecito. Lo scongiuro è un atto di latria (di adorazione) quando è fatto interponendo direttamente il Nome di Dio o di cose, in cui riluce in modo particolare la maestà di Dio (ad es. la Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo). Lo scongiuro può essere fatto in forma semplice (privatamente) o in forma solenne (quando è fatto a nome della Chiesa, dai suoi ministri, nella maniera prescritta). Può essere pure fatto o in forma deprecativa, cioè in forma di preghiera, come nelle litanie dei Santi o in forma imperativa, come un comando. In questa seconda forma lo scongiuro può solo essere rivolto ad esseri inferiori, o al demonio, interponendo il Nome di Dio. Gli scongiuri che il ministro, a ciò deputato dalla Chiesa, fa in nome di Dio ed autoritativamente contro il demonio, o per indurlo ad abbandonare le persone da lui possedute o per indurlo a cessare dall’infestare persone o cose, anche inanimate, prendono nome di esorcismi.

di padre Francesco Pio M. Pompa FI
Tratto da: Il settimanale di padre Pio